Gender gap: pensare al nuovo e non al vecchio per abbattere il divario

“Il mondo si sta privando di una enorme risorsa ed eliminare i pregiudizi che impediscono di superare le disparità tra uomini e donne è un imperativo pressante sia dal punto di vista economico sia da quello morale”, sono state queste le parole con le quali Klaus Schwab, fondatore del World Economic Forum (WEF), ha commentato il Global Gender Gap Report 2017 (ultimo anno disponibile)1.

I dati emersi dal report evidenziano come, dopo circa un decennio di lento ma costante miglioramento verso la parità di genere, si sia registrata per la prima volta una preoccupante battuta d’arresto. La classifica presentata al WEF di Davos lo scorso anno mostra in tutta la cruda realtà l’abisso di trattamento tra uomini e donne. Come è noto, il Report monitora il percorso verso il superamento del gender gap in 144 Paesi attraverso quattro indicatori: situazione economica, istruzione, salute e accesso alla politica.

L’Italian Journal Gender Specific Medicine ha chiesto a Francesca Bettio, professoressa di Politica Economica all’Università degli Studi di Siena, nota a livello internazionale per il suo impegno nelle tematiche riguardanti il genere, di commentare gli aspetti più rilevanti del Report.

Professoressa Bettio, nel corso dello WEF 2018 a Davos si è discusso del divario di genere sotto diverse angolazioni. Qual è lo scenario globale rispetto a questa tematica emerso nell’ultimo Gender Gap Report?

Secondo gli ultimi dati disponibili, quelli dell’anno 2017, l’Italia si è collocata ottantaduesima su 144 Paesi. Non è certo un buon posizionamento, tant’è vero che si è trovata addirittura dietro a diversi Paesi africani, come il Burundi, e a moltissimi Paesi europei. Se guardiamo globalmente i risultati per i 144 Paesi monitorati, la parte alta della classifica è dominata dal Nord Europa confermando quel trend ormai consolidato che vede tradizionalmente quest’area geografica del mondo particolarmente avanzata nel percorso verso l’azzeramento del divario uomo-donna. Per il nono anno consecutivo troviamo al primo posto l’Islanda, al secondo posto la Norvegia, al terzo la Finlandia e al quinto la Svezia. Siccome l’indagine valuta la disparità a prescindere dalle condizioni economiche generali, alcuni Paesi relativamente poveri, come il Ruanda e il Nicaragua, figurano al quarto e al sesto posto. Un dato che colpisce particolarmente è l’assenza tra i primi dieci classificati di alcuni Paesi industrializzati e avanzati, tant’è che Francia e Germania si collocano rispettivamente all’undicesimo e al dodicesimo posto, Regno Unito al quindicesimo, Stati Uniti al quarantaseiesimo. Questo vuol dire che una maggiore potenza economica non garantisce affatto una maggiore eguaglianza tra uomini e donne. In generale, se guardiamo ai 144 Paesi presi in esame, il progresso nel colmare il gender gap è fermo al 68 per cento in media. Se poi ci soffermiamo a considerare i risultati migliori, questi si hanno rispetto a salute e istruzione, mentre il divario è ancora considerevole per quanto riguarda gli aspetti economici e la rappresentanza politica. Se prendiamo in considerazione un decennio, a partire dal 2006 in realtà c’è una tendenza al miglioramento, ma questa tendenza non è uniforme, né dipende dagli stessi fattori ovunque.

Come si posiziona in questo contesto l’Italia?

Nella classifica dei 144 Paesi, l’Italia ottiene una votazione sopra la media. Ciò nonostante si colloca all’ottantaduesimo posto, con 81 Paesi davanti a sé nei quali l’eguaglianza di genere misurata dal Global Gender Gap è maggiore. A circa dieci anni di distanza dalla prima uscita di questo indice si registra un qualche miglioramento, poiché nel 2006 il nostro Paese era settantasettesimo su 115 Paesi, mentre ora è ottantaduesimo su 144 Paesi; quindi in termini relativi qualcosa si è guadagnato. Rimane da chiedersi perché un Paese ricco ed economicamente avanzato come l’Italia continui a collocarsi poco sopra la metà di una classifica che include Paesi ricchi, poveri, economicamente avanzati e no. Le ragioni sono due: una è legata agli indicatori di salute, l’altra all’integrazione delle donne nell’economia. Se prendiamo in considerazione l’istruzione, non siamo invece molto distanti dai Paesi dove si registra piena parità; e anche per quanto riguarda l’accesso alla politica, ce la caviamo meglio di una manciata di Paesi europei – tra cui l’Austria, la Grecia, il Lussemburgo, la Romania e la Polonia – e molto meglio di Giappone e Stati Uniti.

Nel settore della salute si prendono in considerazione due indicatori. Il primo è quello della speranza di vita in buona salute, rispetto al quale le donne italiane, come del resto accade nella maggior parte dei Paesi economicamente avanzati, hanno un’aspettativa superiore agli uomini. L’altro è un indicatore che penalizza pesantemente l’Italia (ma che è stato anche molto contestato) e che è rappresentato dal rapporto tra maschi e femmine alla nascita, rispetto al quale biologicamente i maschi tendono a prevalere, anche se tale prevalenza varia da Paese a Paese. In alcuni casi questa prevalenza origina da una discriminazione di genere molto forte (per esempio, in Cina e in India), mentre nei Paesi avanzati è molto rara la presenza di questa discriminazione anche perché le nascite sono ai livelli minimi storici. Per questa e altre ragioni di tipo più squisitamente statistico, autorevoli studiosi quali la professoressa Mara Gasbarrone e il professor Alberto Zuliani hanno suggerito di depurare il Global Gender Gap da questo indicatore, il che migliorerebbe sensibilmente la posizione dell’Italia2.

Diverso è il discorso per quanto riguarda la partecipazione all’economia e le relative opportunità per uomini e donne, laddove l’Italia si colloca nella sezione medio-bassa della classifica. A spostare verso il basso il posizionamento del nostro Paese sono due indicatori: il divario nello stipendio percepito a parità di tipologia di lavoro e il differenziale di reddito da lavoro effettivamente percepito, aspetti per i quali scivoliamo rispettivamente al centoventiseiesimo e centotreesimo posto. Il primo indicatore si basa su disparità percepite, mentre il secondo ha precisi riscontri in altre fonti. Ricordo che meno della metà delle donne in età lavorativa è occupata e che a ciò si aggiunge il fatto che un buon terzo delle donne attualmente lavora solo part-time. Perciò, se andiamo a considerare il reddito da lavoro complessivo che le donne ‘producono’ a fine anno, ci ritroviamo con un valore notevolmente inferiore rispetto agli uomini. Lo certifica l’EUROSTAT – l’ufficio statistico della Comunità Europea – che calcola il cosiddetto ‘Gender Overall Earnings Gap’ o differenziale complessivo di reddito3. Si prendono cioè in considerazione tutte le donne e tutti gli uomini in età lavorativa, si fa la somma dei redditi che donne e uomini producono rispettivamente e se ne ricava una differenza media: il risultato per l’Italia riesce ancora ad impressionare poiché a fine anno una donna porta a casa mediamente il 44 per cento in meno rispetto a un uomo. La posizione delle donne nell’economia è da sempre il tallone d’Achille del­l’Italia nelle classifiche sull’eguaglianza di genere a livello internazionale. Lo conferma anche il terz’ultimo posto che l’Italia ottiene in sede europea secondo un indice di uguaglianza che io considero ben più affidabile e ragionevole di quello diffuso a Davos. L’indice è elaborato per i soli Paesi europei ed è diffuso dallo European Institute for Gender Equality4.




In generale dunque uno scenario nazionale piuttosto complesso e sfavorevole per le donne. In quali aree si osservano risultati migliori e peggiori?

Se scartiamo l’area della salute, per le ragioni che ho detto, i risultati peggiori riguardano l’ambito economico. Quelli migliori si registrano nel campo dell’istruzione, perché le giovani italiane hanno sorpassato i loro coetanei quanto a titoli di studio conseguiti. Ciò si è verificato già da parecchi anni ed è parte di un processo comune a molti Paesi del mondo, soprattutto quelli ricchi e in particolare quelli europei. L’Italia si colloca relativamente bene a livello internazionale anche rispetto alla presenza delle donne in posizioni apicali, in politica, nei consigli di amministrazione delle imprese o nel governo locale. L’indice di Davos si limita a registrare la situazione in ambito politico, calcolando la quota delle donne nei parlamenti, nelle posizioni ministeriali o a capo dei governi. Complessivamente l’Italia non se la cava malissimo secondo questi ultimi indicatori, collocandosi al quarantaseiesimo posto (su 144), ma il quadro migliora ulteriormente se si considerano posizioni apicali anche al di fuori dell’arena politica (per esempio, nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa o in altre posizioni di governo). Lo conferma il citato indice dell’Unione Europea, secondo il quale l’Italia rimane sì quattordicesima nella classifica generale dei 28 Paesi dell’Unione – e a molti punti di distanza dalla Svezia – ma ha guadagnato posizione negli ultimi anni grazie soprattutto alla presenza femminile nelle posizioni apicali.

Le evidenze indicano una tendenza all’allargamento del divario di genere in tutto il mondo. Quali strategie/interventi bisognerebbe mettere in campo almeno in Italia per contrastare questo gap e favorire la parità di genere?

Non esagererei la tendenza al peggioramento, perché dipende dal periodo che si considera, ma è indubbio che il miglioramento è lento, laddove c’è. Data la complessità del problema, sono tanti gli interventi da considerare per il nostro Paese, poiché non si può favorire l’equità di genere con un’unica politica. Bisognerebbe cominciare dall’istruzione. È vero che ci sono più laureate donne che laureati maschi, però le donne sono ancora minoritarie in discipline o sottodiscipline che conducono a lavori ben pagati: mi riferisco in particolare a discipline scientifiche come matematica, informatica o ingegneria, o a quelle che riguardano una formazione economico-finanziaria. La scuola è ancora il luogo ideale per abbattere stereotipi di genere sui lavori femminili e su quelli maschili, anche se può essere affiancata da iniziative che coinvolgano i nuovi media. C’è poi, da sempre, il problema di fornire un maggiore sostegno a chi vuole contemporaneamente avere figli e lavorare. Possiamo imparare dalla Francia, Paese a noi più vicino di quelli nordici, dove una vasta gamma di provvedimenti è stati pensata per aiutare i genitori a combinare lavoro e famiglia senza correre il rischio di ritrovarsi poveri di soldi o di tempo, come succede invece a parecchie delle nostre giovani coppie. C’è poi il capitolo della cura di disabili e anziani. In generale, la cura è un settore molto femminile e con l’invecchiamento della popolazione si stanno creando sempre maggiori opportunità di occupazione. Da noi questo settore è cresciuto quasi interamente in mano alle donne immigrate, con la politica economica che si è limitata a distribuire aiuti economici alle famiglie perché potessero assumere le cosiddette ‘badanti’. In realtà c’è un’altra visione possibile sulla politica della cura, quella che non affida questo compito unicamente al welfare familiare. È una politica che mette l’accento sullo sviluppo delle cosiddette infrastrutture sociali come la scuola, la ricerca, la cultura ma anche e soprattutto la cura, e che per questo è in grado di offrire maggiori opportunità di lavoro alle donne. Si parla tanto di nuova politica industriale con al centro il cosiddetto piano 4.0 per sostenere l’innovazione nelle imprese, mentre si tace su una possibile strategia incentrata sull’innovazione delle infrastrutture sociali e, in particolare, del settore della cura. Nell’ambito dell’assistenza agli anziani, per esempio, manca la visione strategica di un’attività di cure domiciliari che coniughino assistenza manuale e tecnologia, dalla domotica all’informatica alla robotica. In questo settore il rischio di perdere posti di lavoro a favore delle ‘macchine’ è scarso, mentre l’uso a domicilio di apparecchiature medicali complesse o di robottini intelligenti faciliterebbe l’autonomia dell’anziano, attirando al contempo forza lavoro più qualificata, meglio pagata e quindi anche locale e non solo straniera. L’Italia potrebbe veramente diventare leader in questo settore in quanto dispone non solo di un potenziale bacino di manodopera femminile da sfruttare – le donne che ora non lavorano – ma possiede anche le conoscenze e le competenze necessarie (si pensi ai distretti biomedicali come quelli di Mirandola o all’Istituto di BioRobotica della Scuola Superiore Sant’Anna). Una politica di rilancio del settore della cura a lungo termine che facesse perno sull’innovazione a domicilio è un’occasione fantastica, che gioverebbe non solo alla quantità e alla qualità dell’occupazione femminile, ma anche al benessere del Paese nel suo complesso.

Intervista a cura di

Mariapaola Salmi

Email mp.salmi@libero.it

Fonti

1. World Economic Forum, Global Gender Gap Report 2017, Cologny/Geneva (https://www.weforum.org/reports/the-global-gender-gap-report-2017).

2. Gasbarrone M, Global Gender Gap: maneggiare con cura, InGenere, 23 settembre 2010 (http://www.ingenere.it/articoli/global-gender-gap-maneggiare-con-cura); Zuliani A, Pesi e misure del Gender Gap Globale, InGenere, 29 ottobre 2010 (http://www.ingenere.it/articoli/pesi-e-misure-del-gender-gap-globale).

3. Eurostat, Statistics Explained - Gender Statistics (data up to February 2018: Figura 5 in particolare) (http://ec.europa.eu/eurostat/statisticsexplained/images/0/0d/Gender_overall_earnings_gap%2C_2014_%28%25%29.png).

4. European Institute for Gender Equality, Gender Equality Index 2017: measuring gender equality in the European Union 2005-2015 - Report (http://eige.europa.eu/rdc/eige-publications/gender-equality-index-2017-measuring-gender-equality-european-union-2005-2015-report).